mercoledì 9 settembre 2009

Authentic Learning

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Pubblichiamo un documento di sintesi sull'interessante argomento “Authentic Learning" a cura del gruppo di docenti che segue il corso online Advanceddol organizzato dal Politecnico di Milano. (www.dol.polimi.it/adol).

giovedì 7 maggio 2009

Riflessioni sull'uso delle NT nella didattica dei licei

Premetto che insegno filosofia e storia in un triennio di un liceo, che lavoro con l’informatica a scuola dall’a.s. 2000-01 e che in modo finora del tutto autodidatta ho cercato le soluzioni migliori (o per meglio dire più adatte a me) al problema di come usare le ITC nel modo migliore nel dialogo educativo.

Sono spinto a questa lettera da un certo disagio che mi affligge quando leggo e studio le pubblicazioni relative alla Didattica assistita dalle Nuove Tecnologie.
Credo che questo disagio sia dovuto essenzialmente al fatto che le analisi e le proposte che ho incontrato finora erano calibrate su situazioni didattiche diverse dalla mia, e cioè:

· corsi universitari
· corsi di aggiornamento aziendali o comunque corsi di perfezionamento altamente specializzati
· scuola primaria (e solo parzialmente scuole medie).

Cercherò, solo per ragioni di chiarezza e per amore di discussione, di elencare quelle che sono a mio avviso le differenze tra le situazioni elencate e quella in cui mi trovo ad operare.

Prima di tutto c’è una questione di numeri (ossia di dimensioni delle classi): in un triennio di liceo oggi viaggiamo intorno ai 20-25 studenti circa, contro le molte decine e spesso centinaia di iscritti a un corso universitario e le poche unità (spesso non più di dieci) di un corso di formazione aziendale.
In secondo luogo c’è una questione di modalità di rapporto: a livello di liceo l’insegnamento è e resta prevalentemente un insegnamento “in presenza”, in cui il contatto diretto e quotidiano tra insegnante e studente e degli studenti tra di loro assume un peso decisivo, mentre all’università (soprattutto) ma anche in un corso di formazione si prevede istituzionalmente che gran parte del lavoro vada fatta dallo studente a casa per i fatti suoi.
In terzo luogo c’è l’aspetto della durata della relazione educativa: un corso di formazione aziendale dura poche settimane, un corso universitario si prolunga per qualche mese, ma al liceo la frequentazione discente-docente dura come minimo tre anni (e si prolunga a cinque per qualche materia, senza tener conto delle ripetente)
In quarto luogo c’è il problema della motivazione: all’università, e a maggior ragione in un corso di formazione aziendale, si dà per scontato che i discenti abbiano fatto una scelta consapevole e che si assumano in prima persona la responsabilità del loro eventuale fallimento, al liceo i ragazzi sono strutturalmente in una fase di passaggio e di formazione della loro stessa persona, arrivando puberi ed uscendo giovani adulti. È superfluo sottolineare che oggi una scuola superiore non può più permettersi (non per ragioni moralistiche, ma di pura sopravvivenza numerica) un sistema di selezione come quello previsto dalla scuola tradizionale, e questo porta a sottolineare molto la necessità di un lavoro personale con gli studenti che abbiano smarrito (posto che le abbiano mai avute) le ragioni della loro presenza in quell’ambiente.
Infine c’è la questione del livello dell’insegnamento impartito: non riesco a pensare che uno studente al termine del suo percorso liceale sia, da qualsiasi punto di vista, molto diverso da uno studente del primo anno di università, e questo vuol dire che anche l’insegnamento, almeno nella parte finale del percorso liceale, deve essere dello stesso livello (nel limite del possibile, ovviamente). Non posso accontentarmi di una serie di slide con la lavagnetta sullo sfondo o una GIF animata con un’ape che passa da un fiore a un altro.

Cominciamo dall’inizio. In un passaggio di un testo del prof. Cantoni ho trovato una cosa molto bella e molto vera, ossia che “si insegna sempre se stessi”.

Al liceo questo è ancor più vero per via delle dinamiche psichiche evolutive dei ragazzi e al loro bisogno di individuare modelli antropologici (da seguire o da respingere). Quando i ragazzi arrivano all’università, sono già in buona parte plasmati; se poi parliamo di professionisti, sarebbe davvero grave che non fosse così.
Io sono convinto che la mediazione della tecnologia informatica non cambi essenzialmente nulla in questa dinamica perché il processo formativo essenziale di una persona (lo studente) non può avvenire se non “in presenza”. Tutto quello che l’informatica può offrire deve essere un prolungamento e un arricchimento del contatto “chick-to-chick” tra studente e docente: non vedo come i valori possano essere trasmessi se non con l’esempio concreto. Non che un gesto “elettronico” non possa trasmettere un valore (per esempio, tanti studenti mi hanno ringraziato del fatto di rispondere alle loro email nelle quali mi esternavano i loro problemi), sia chiaro: è solo una questione di tempi e di reazioni, di sguardi e di toni di voce, di impegni presi e accettati, di tempo fisicamente speso fianco a fianco.
Non vorrei essere accusato qui di eccessiva retorica. Moltissimi miei colleghi, sia maschi sia femmine, si trincerano dietro questa scusa per respingere in blocco l’uso della didattica assistita dalle nuove tecnologie, sostenendo che appunto SOLO nel rapporto diretto e personale ci può essere un’autentica formazione della persona. I colleghi di filosofia, in particolare, si trincerano dietro la mistica del “dialogo” che appunto potrebbe secondo loro avvenire solo nel faccia a faccia quotidiano. Io invece ritengo (ovviamente) che le ITC possano dare un contributo importante, e in questi tempi forse decisivo, a questo processo: se le scrivo questa lettera è proprio perché vorrei cercare di capire meglio come questo può avvenire.

In un liceo bisogna prima di tutto insegnare “perché si studia” (nel senso della causa finale aristotelica). Credo sia corretto ammettere che a questo livello è fondamentale e insostituibile il mettersi in gioco dell’insegnante in prima persona: nessuna macchina e nessuna mediazione può sostituirsi alla persona del docente che accetta di “incarnare” in qualche modo i valori che dichiara di proporre agli studenti, mostrandone la validità nell’aiutare a diventare sempre più se stessi, ossia persone in grado di affrontare in modo “umano” la vita (che è poi il compito che tutti noi dobbiamo affrontare e risolvere). I ragazzi da questo punto di vista hanno le antenne sensibilissime e le usano con la tipica mancanza di pietà e di mezze misure degli adolescenti: non puoi permetterti un solo errore, una sola contraddizione, una sola debolezza, perché altrimenti tutto quello che hai insegnato e mostrato fino a quel momento vengono falsificati, popperianamente parlando.

In secondo luogo bisogna insegnare “come si studia”, e qui le NT a mio avviso si dimostrano un formidabile alleato del docente. In un liceo (o almeno in un triennio) infatti non si tratta più di “leggere e ripetere” certi contenuti, ma di riorganizzarli su linee e percorsi che sempre di più dovrebbero essere propri e individuali. La nozione di ipertesto è a mio avviso una stupenda metafora (in realtà è qualcosa di più di una metafora) di quello che è il processo reale dell’apprendimento. Quando io con il mio Filo di Arianna (www.ariannascuola.eu)consegno ai ragazzi contenuti semi-lavorati incoraggiandoli a ricomporli con quanto hanno annotato a lezione e quello che trovano sul manuale, insisto sempre sul fatto che si tratta solo di un “trucco” per velocizzare un’operazione che si potrebbe anche fare con carta e matita, ma che – fatta in questo modo – prenderebbe tanto di quel tempo che sarebbe di fatto impossibile (detto tra parentesi, non è una cosa così banale da capire: di solito i ragazzi ci arrivano in quinta).

In terzo luogo bisogna insegnare “i contenuti”, e qui le differenze tra la mia esperienza didattica e la teoria si fanno marcate. D’accordo che bisogna insegnare come e dove procurarsi le informazioni, mettere in grado gli studenti di andare avanti per conto loro, e così via: ma non dimentichiamoci che stiamo parlando di studenti liceali e che la gran parte di loro, lasciati a se stessi, si precipiterebbero a telefonare all’amico/amica del cuore, a fare una partita di pallone, a guardare un programma TV o al limite a chiacchierare ai giardinetti o al muretto. Ossia, “vivrebbero” molto ma “imparerebbero” ben poco. D’altra parte, la mia concreta esperienza sul campo è che, passato il primo momento di eccitazione nell’uso dell’informatica a scuola, tutti si rendono conto che dal loro punto di vista è una fregatura, perché li fa lavorare molto di più: di qui una inevitabile dialettica, per non dire resistenza strisciante, con il sottoscritto. Ha idea di quante volte sono stato accusato di essere il responsabile dei 5 o 4 in matematica “perché per lavorare al computer i ragazzi non facevano gli esercizi a casa di matematica”?
Detto in altre parole (e spero un po’ più chiare): io trovo che una delle contraddizioni più micidiali nelle quali ci siamo infilati sia quella di chiedere da un lato una formazione sempre più accurata e approfondita e dall’altro rimandare sempre più in avanti il momento in cui chiedere allo studente il “salto di qualità” (l’espressione non è tecnica, ma spero si capisca quello che intendo dire) della sua formazione, ossia il passaggio da un livello approssimativo e che si accontenta più o meno di qualsiasi cosa venga fornito come output a un livello che io chiamo “pubblico” perché risponde agli standard della comunità degli “adulti”. Il sistema ha risolto la contraddizione con i master di specializzazione (a pagamento, guarda un po’….) che spostano l’ingresso nel mondo del lavoro quasi alla soglia dei trent’anni, e questo a sua volta provoca tutta una serie di problemi sociali (che però esulano decisamente dall’argomento di questa lettera). Io vorrei trovare una soluzione che permetta di abbassare l’età in cui viene fatto quel famoso “salto di qualità”, senza per altro sacrificare troppo della vita dei ragazzi.

Insomma: io DEVO insegnar loro le antinomie della ragion pura di Kant (come altre decine di argomentazioni filosofiche), così come NON POSSO accettare che escano dal mio corso di storia senza sapere la data della breccia di Porta Pia (insieme ad altre centinaia di conoscenze storiche). Non posso accontentarmi di una banale presentazione in PPT spacciata come LO, e non posso investire ore di lavoro per un riassuntino di storia recitato davanti a una telecamera. I ragazzi alla fine devono (dovrebbero) avere una formazione/informazione a 360° che sia davvero tale. Le informazioni sono i mattoni (o se vuole, le tessere di un mosaico) che i ragazzi devono avere per poter costruire la loro personale Weltanschauung: i mattoni devono essere tanti, se si vuole tirar su una bella casa, e devono essere tutti ben squadrati, se vogliamo che la casa stia in piedi. Non si tratta di sacrificare i ragazzi al Moloch dei programmi ministeriali: si tratta di dotarli delle informazioni minime per potersi orientare nel mondo senza fare continuamente la figura dei babbei. C’è tutta una serie di cose che il mondo degli “adulti” considera ovvio sapere (giustamente) e si scandalizza (il mondo degli adulti) quando scopre che i ragazzetti usciti dal liceo non le sanno. Tutti noi abbiamo riso quando gli inviati delle Iene e di Striscia la notizia hanno fatto fare le più meschine figure ai nostri parlamentari facendo loro domande imbarazzanti per la loro semplicità; ma in realtà poi quanti di noi avrebbero saputo rispondere con sicurezza? E chi avrebbe dovuto insegnare loro queste cose, se non gli insegnanti delle medie e del liceo? E fin quando si tratta dei confini dell’Afganistan, pazienza; ma quando si tratta delle impalcature logico-concettuali, delle dinamiche storico-economiche di lunga durata, delle dialettiche politiche elementari, allora la cosa è (mi pare che sia) diversa.


Tornando al punto di partenza: io sento la mancanza di un modello operativo realmente rispondente alle esigenze di un triennio di liceo, che riesca a coniugare una informazione contenutisticamente ricca e dettagliata, una formazione metodologia corretta e rigorosa, una partecipazione attiva da parte degli studenti.

Personalmente, ritengo che in questo periodo si stia dando troppa importanza a quest’ultimo punto e, in particolare, alla pratica del podcasting, sia audio sia video (per esempio, nell’intervento della prof.ssa Jan Herrington l’anno scorso al convegno di Milano del DOL; oppure nel lavoro che sta facendo a Torino Alberto Pian all’istituto Bodoni-Paravia). Non nego che per certe materie possa essere utile o addirittura fondamentale: mi riferisco per esempio alle lingue, oppure allo stesso italiano, dove si potrebbero far ascoltare i testi poetici letti in modo tale da valorizzare tutte le loro sfumature musicali (è noto che la selezione dei docenti avviene privilegiando di fatto le loro capacità di esposizione scritta, e non mi risulta che vengano tenuti corsi di recitazione nelle università). Quello che sostengo che il loro uso generalizzato non è particolarmente utile né produttivo dal punto di vista didattico, a livello di triennio di liceo.
Io facevo podcasting (in modo un po’ artigianale) già cinque anni fa: registravo le mie lezioni con un voice recorder che salvava i file in formato mp3 e poi li mettevo a disposizione dei ragazzi nelle aule virtuali delle loro classi (nel mio liceo, il Giordano Bruno di Melzo, abbiamo da tempo a disposizione questo strumento). La mia idea era quella che i ragazzi potessero ascoltarsi la mia lezione per esempio mentre venivano a scuola in pullman o in metropolitana, o qualcosa del genere (per giustificare la mia iniziativa, raccontavo loro quell’episodio contenuto in una delle primissime puntate di «E.R – medici in prima linea» il dottorino Carter, appena arrivato dall’università, scopre che il dottor Benton, durante l’unica ora di riposo nel corso dell’intera giornata, non solo ripassa i nodi da chirurgo, ma ascolto con il walkman un corso di chirurgia cardiovascolare. Sa come è andata a finire? Quei file audio li hanno scaricati solo coloro che erano stati assenti a quella determinata e particolare lezione, per non dover prendere gli appunti dei loro compagni. Quando ho chiesto loro di giustificare tale disinteresse, sono stati categorici: «Non è possibile impiegare un’ora di tempo per riascoltare le cose che si sono già sentite in classe». Non le riferisco, per una questione di dignità, altri commenti di cui sono venuto a conoscenza per vie traverse...
Certo, lei potrebbe dirmi che sono io che ho sbagliato tutto, che per far funzionare queste cose occorre coinvolgere i ragazzi, e così via. Io tornerei a ripetere che l’insegnamento al liceo si scontra da una parte con dei limiti di tempo che con tutta la migliore buona volontà non possono essere elusi, dall’altra con l’obbligo oserei dire «morale», o almeno «pubblico» (nel senso di una responsabilità nei confronti della società) di completare, almeno «a tratteggio», per così dire, il percorso formativo previsto. Se esiste un modo per coniugare col podcasting affettivo apprendimento, partecipazione, approfondimento contenutistico e rispetto dei limiti di tempo, vorrei davvero che qualcuno me lo insegnasse. Fino a quel momento, la mia perplessità sull’utilità pratica del podcasting rimane.
[in ogni caso, siccome nihil informaticum a me alienum puto, nel mio sito didattico Il filo di Arianna – www.ariannascuola.eu - ho provato a inserire la lettura in streaming dei paragrafi di un articolo, L’alcol nella società del ‘700]

Dal punto di vista della riflessione teorica, sono giunto alla conclusione che il podcasting può anche essere divertente, gratificante e coinvolgente, ma implica (mi corregga se sbaglio) un ritorno alla, o almeno una insistenza sulla dimensione «orale» che per noi parlanti entrati nella dimensione «visiva» della lettura è in realtà un regresso.
Se pensare è (o almeno è anche) trovare/porre relazioni, è nella dimensione «visiva» che si possono più facilmente coglierle (per sé) e mostrarle (agli altri). Nella prassi didattica, quindi, schemi e mappe concettuali sono molto più utili delle registrazioni audio/video, soprattutto se sfruttano la ipertestualità dei link e diventano degli “indici iconici” di intere sezioni dell’ipertesto [sto sperimentando questa strada, che mi sembra molto promettente, in una sezione del Filo di Arianna, quella sulla Navigazione nel medioevo, ma confesso che sono ancora agli inizi].


Tornando ancora una volta al punto di partenza, chiedo di nuovo se esiste un modello che riesca a tener conto di tutte le esigenze che ho elencato:

· prevalenza dell’insegnamento in presenza per la trasmissione dei valori (Non c’è speranza che una macchina possa risolvere il problema educativo, che è un rapporto tra persone)
· esemplificazione/incarnazione del corretto metodo di studio
· estensione massima delle fonti cui attingere le informazioni necessarie alla costruzione della personale Weltanschauung (qualsiasi proposta operativa deve inevitabilmente apparire come “non-finita” -nel senso michelangiolesco del termine, o nel senso in cui è non finito il Teeteto di Platone-: la macchina, l’organizzazione, il sistema possono fornire i materiali e un’ipotesi di come i materiali vadano assemblati, ma il montaggio vero e proprio deve essere compiuto dalla coppia docente-discente)


Se esiste, la prego di indicarmelo, perché io non l’ho ancora incontrato.

Se non esiste, posso solo dare la mia disponibilità a cercarlo/inventarlo, e nel frattempo mettere in comune l’ipotesi di lavoro su cui mi sono concentrato in questi anni.

Essa prevede la realizzazione da parte di ogni singolo studente di un quaderno-dispensa in cui confluiscano:

· testi provenienti dal Filo di Arianna
· appunti provenienti dalle mie lezioni
· immagini o fonti scaricate dalla rete dietro mia indicazione
· frammenti del manuale scansionati

Ammetto la collaborazione tra gli studenti, a condizione che vengano indicate con nota a piè di pagina le parti prese da altri (su quest’ultimo aspetto per ora i risultati sono deludenti, perché i ragazzi si limitano a indicazioni generiche mentre io, come lei avrà ovviamente capito, vorrei che fosse indicata la singola riga e il singolo paragrafo “preso a prestito” dal compagno o dal libro. Cercherò di fare meglio il prossimo anno…)

Le fonti cui i ragazzi devono rifarsi sono perciò almeno tre (più una):

· le mie lezioni
· gli articoli già selezionati e strutturati del Filo di Arianna, scaricabili in formato elettronico
· il manuale
· la rete, ma con esclusivo riferimento a un numero relativamente ristretto di siti affidabili

Il senso del lavoro è imparare che lo studio è il riassemblaggio dotato di senso di TUTTO il materiale che la vita e l’esperienza ci mettono davanti.



Cordiali saluti

Martino Sacchi

mercoledì 6 maggio 2009

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Abbiamo provato a creare con il software gratuito wordle.net (è un generatore di cloud, che indica con una dimensione maggiore il "peso relativo" di una parola all'interno di un determinato contesto) la cloud degli ultimi 50 messaggi inseriti nel gruppo di Advanced DOL, il terzo anno DOL riservato a chi ha seguito i primi due anni ma è ancora curioso di approfondire.
Il risultato ci rende orgogliosi: A-DOL risulta divertente, tecnologico, interessante, parla di scuola e di persone...

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Le impressioni dei docenti presenti all'interessante seminario tenuto dalla Professoressa Anna Arici Barab dell'Indiana University presso il Politecnico di Milano in data 1 Aprile 2009

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In questo secondo documento, relativo al tema "Didattica e Nuove Tecnologie" (argomento di studio del corso on_line Advanced_dol organizzato dal Politecnico di Milano), si cerca di centrare l'attenzione su una delle più importanti strategie didattiche che sono alla base dell'apprendimento: "L'Apprendimento Collaborativo" o più comunemente detto "Lavoro di Gruppo".
Questo tipo di apprendimento è tanto più efficace quanto più è "mediato" dal gioco, ...insito nella natura di ciascun fanciullo. Sappiamo, infatti, che attraverso il gioco costui "impara facendo" ...quasi senza rendersene conto.




giovedì 12 marzo 2009

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